Ottavo manifesto degli Imperdonabili. La scrittura come ripicca
Io scrivo per infettare. Questo è il mio obiettivo.
Ogni romanzo che vuol dirsi degno deve parlare della vita. Non delle cose, o dei fatti, ma della vita, del suo midollo. Che è privo di senso e muto come un universo vuoto.
Per questo la scrittura deve essere atea. Le frasi devono essere gocce di angoscia. Meglio se travestite da piccoli fatti innocui, piccole vicende personali.
Non sempre mi riesce.
Ho paure e demoni incurabili per definizione.
Non credo nelle trame innocenti, scritte per il solo gusto di raccontare (quel “ho semplicemente voluto scrivere una storia” mi disgusta), non credo nel realismo fine a se stesso: deve, piuttosto, essere simbolico fino all’esasperazione. Non credo in Transeuropa, in Wildworld e nemmeno negli Imperdonabili, se non come strumenti.
Sono figlio di operai di provincia, a volte disoccupati, cresciuto tra rabbie, bestemmie in dialetto e fatica, tanta e vera, per arrivare alla fine del mese. Solo quelli come me sanno che il vero valore della cultura sta nel fornire una possibilità di sopravvivenza e di giusta disperazione. Per questo odio chi la banalizza, chi la mercifica, come quegli editori che ripropongono trame e sceneggiature che hanno perso forza a causa di una reiterazione remunerativa. E odio pure chi la costringe, per contro-snobismo, a un understatement tutto di facciata.
I romanzi devono fornire chiavi di lettura del mondo per godere e disperarsi con più forza, non meglio. È una questione di quantità.
Lo stile mi interessa il giusto, basta che sia funzionale allo scopo. Mentire, sovvertire le storie, giocare basso e ingannare: questo mi piace.
Come tutti i veri esseri umani ho visto il meccanismo che sta sotto questa faccenda dell’esistenza, e non funziona. Morirete. Non resterà niente e non avrete mai risposte. Ma essere uomini vuol dire appunto rendersi conto in pieno di tutto questo. Altrimenti si è banali fatti tra i fatti.
E cercherò in tutti modi di far sì che anche voi siate uomini, infettandovi con la mia malattia, per ripicca e paura.
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Immagine a corredo del testo per gentile concessione di Diego Barsuglia: nato a Pisa nel 1978, è fotografo professionista dal 2006. Da qualche anno si occupa principalmente di inquinamento, salute e consumo del suolo. I suoi lavori sono stati pubblicati tra gli altri su Sette, Repubblica, l’Espresso, El Mundo, El Paìs, Rai e Sky.
Mario Bramè è nato a Vigevano nel 1973 e vive a Milano. È stato (o è tuttora): ph.d in filosofia della scienza, tifoso, scrittore, grafico, runner, editore, project manager, batterista, saggista, seo specialist, redattore, chitarrista, direttore di collana, studente di ingegneria, traduttore, programmatore, cantante, webdesigner, editor, inter-railer, organizzatore di concerti.
Nel 2018 ha pubblicato il romanzo La notte dei ragni d’oleandro.
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