Trump, Erdoğan e le nuove frontiere della comunicazione istituzionale
«Non essere sciocco. Ti chiamo più tardi.»
Sembra lo scambio di un messaggio WhatsApp tra due amanti. Invece, è la conclusione della lettera che il presidente americano Donald Trump ha spedito al presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.
Ma c’è molto di più, e di più incredibile, in questa modalità di comunicazione. Nelle parole scelte, nella tempistica e nel vero destinatario della missiva.
Si tratta, infatti, del giorno in cui la Turchia ha lanciato la sua incursione nella Siria nord-orientale. L’opinione pubblica occidentale è scossa, incredula, ma può solo guardare le immagini drammatiche che documentano l’illegittima occupazione turca nella regione di Rojava. Sangue nelle piazze, centinaia i curdi trucidati. L’aeronautica turca padrona del cielo, l’esercito curdo costretto a nascondersi e a spostarsi di notte.
«Lavoriamo a un buon accordo! Non vuoi mica essere responsabile dell’assassinio di migliaia di persone, io non voglio essere responsabile della distruzione dell’economia turca.» La lettera, ottenuta per la prima volta da un reporter della Fox Business, contiene anche una minaccia. Il presidente americano cita, poi, un messaggio «confidenziale» a lui inviato dal generale Mazloum, capo militare delle Forze democratiche siriane, in cui quest’ultimo si dice «disponibile a negoziare e a fare concessioni che [i curdi] non avrebbero mai fatto in passato».
Palpita qua e là anche un certo spirito pedagogico: «Te ne ho dato un piccolo esempio con quanto accaduto con il pastore Brunson.» E sembra un maestro inflessibile, ma accondiscendente, quando aggiunge: «Ho lavorato duro per risolvere i tuoi problemi.»
La lettera che la Casa Bianca invia a Erdogan – contrariamente alle aspettative parliamo di un oggetto reale, non (solo) dell’immaginazione di un regista –, reca una data di tre giorni successiva al colloquio telefonico tra il presidente americano e quello turco. Fu proprio in quella occasione che il premier di Ankara pensò di avere il via libera per l’offensiva. Da quel giorno, invece, la «motosega di Trump» – che non è la «motosega di Hitler», cioè la mitragliatrice MG 42 della Wermacht, talmente efficace da diventare, nel dopoguerra, un’arma della Nato, ma la sua compulsione a twittare –, sottolinea l’urgente necessità del ritiro americano.
Adesso però il Potus mette le cose per iscritto, su carta intestata, non vuole essere frainteso, e conclude con il registro di Hollywood: «La Storia ti guarderà benevolmente se farai le cose nel modo giusto e umano. Ti giudicherà per sempre come il diavolo se non succedono cose buone. Non fare lo spaccone.» E poi la chiusa alla caro amico, che già conosciamo.
L’intera lettera suona talmente parodica che ci si domanda della sua autenticità. «In realtà pensavo che fosse uno scherzo, uno scherzo che non poteva provenire dal Oval Office.» Così il parlamentare democratico Mike Quigley alla CNN. In effetti, il confine tra burla, ironia, sarcasmo e faccia tosta, con questa figura da avanspettacolo prestata al governo degli Stati Uniti, si fa labilissimo.
Ma la lettera è una risposta precisa. La pubblicazione arriva subito dopo lo schiacciante voto della Camera per condannare il ritiro delle truppe di Trump dalla Siria. «Oggi alla Camera abbiamo votato 354 a 60 per condannare le azioni di Trump nei confronti della Siria,» questo è il tweet della contraerea democratica, affidata al deputato Mike Levin.
La Casa Bianca non perde tempo a confermare: Trump avrebbe persino consegnato copie della lettera al meeting successivo.
Dunque, è tutto reale. Il presidente degli Stati Uniti ha scritto una lettera del genere, un lungo messaggio da compagnone al quale mancano solo le emoticon. Non si sa se in questo modo si compie un passo nel processo di desacralizzazione delle istituzioni oppure l’ennesimo salto nella cartoonizzazione fine a sé stessa. Entrambe le cose? Quel che è sicuro è il fatto che in Siria non sta andando in onda una fiction, mentre il messaggio del callido comunicatore è rivolto a noi, perché lo si possa percepire più vicino al sentimento comune. E quindi, sempre dalla nostra parte.
La redazione è composta da: Roberto Addeo, Mario Bramè, Simone Cerlini, Eugenio Chiara, Luca Fassi, Peter Genito, Giulio Milani, Filippo Ottonieri, Lorenzo Semorile. Colpevole: Giulio Milani.