Le mutande sulla faccia: dalla mutanda alla mascherina, una breve storia di costume e di morale
Un pezzo di stoffa che copre una via di accesso naturale tra l’interno e l’esterno del corpo. Se uno le definisce in questo modo, tra mutanda e mascherina non c’è quasi alcuna differenza, se non la location: alta quella della mascherina e bassa quella della mutanda… I quartieri alti e i quartieri bassi. Ma le analogie non finiscono qui. Ci sono somiglianze fisiche e simboliche.
Partiamo dalla mutanda. Gli uomini e le donne non hanno quasi mai portato le mutande, semplicemente perché non esistevano. Per generazioni a nessuno venne in mente che fossero necessarie. D’altronde, nessun animale ha la necessità di avere strati di pelle a coprire le aperture del corpo (bocca, narici, ano, uretra e vagina), che sono costruite, se ci fate caso, proprio per aprirsi e chiudersi secondo necessità, in modo da regolare ingressi e uscite, input e output.
Greci e romani di ogni sesso avrebbero considerato assai bizzarra la mutanda. Per loro sarebbe stato come mettere una porta davanti a una porta: una scomodità in più. Ma la cultura, si sa, deve sempre complicare le cose semplici e così, in tempi veramente recenti (cioè solo qualche generazioni fa), la mutanda è diventata qualcosa di opportuno (anche senza che i motivi fossero ben spiegati). E così le mamme al mio paese raccomandavano ai figli (da cui il famigerato “mettiti le mutande pulite che non si sa mai…”). Eppure, come mai prima non se ne era sentita la necessità? Il motivo principale è che la mutanda è stata introdotta, per dirla alla veneta, per mettere el tacòn al buso (e qui direi che la metafora è azzeccata), cioè per risolvere il problema creato dai pantaloni.
Facciamo un piccolo passo indietro. Greci e romani, dicevamo, indossavano vestiti sostanzialmente aperti sotto (come il kilt scozzese che infatti non prevede indumenti intimi) permettendo così una maggiore libertà e, tutto sommato, igiene naturale. Alla fine dell’impero, però, pare che a Costantinopoli più di un vescovo si sia preoccupato della facilità con cui si accedeva al corpo e abbia incoraggiato la corte bizantina ad adottare vestiti cuciti intorno alle gambe; sostanzialmente l’antenato dei nostri pantaloni che però non si chiamavano ancora così.
Il nome lo acquistarono più tardi, quando i veneziani, che commerciavano con Bisanzio, cominciarono a vendere e usare questo capo di abbigliamento, soprattutto per marinai e lavoranti. Poiché i veneziani erano devoti al loro santo Pantaleo di Nicomedia (un incrocio tra Wolverine ed “Ercolino Sempre In Piedi”), questi gambali cuciti presero il loro nome. Curiosamente, per un incrocio ancora più strano, nel mondo anglosassone il termine finì con l’indicare proprio le mutande, pants, mentre da noi si usa a volte il termine slip, che per gli inglesi ha un altro significato.
Ma così si creò un problema. In tempi di igiene approssimativa, lasciare al chiuso le parti basse non è gradevole. Purtroppo, i vestiti esterni, pantaloni compresi, costavano un sacco e cambiarli in continuazione non era praticabile. E dunque? L’intuizione pratica fu di introdurre qualcosa tra l’abito esterno e il corpo. Non a caso il problema era meno sentito dalle donne che dagli uomini, proprio perché indossando la gonna continuavano, come gli Highlander scozzesi, ad avere un accesso diretto tra il mondo e la sua origine (© Courbet!). Basti pensare che, all’inizio del ’700, si stima, solo 3 nobildonne su 100 indossavano le mutande (e non pare fossero le più pudiche).
Quindi la mutanda nasce come profilattico dei vestiti e non come pudibonda difesa delle parti intime. E infatti dobbiamo distinguere la mutanda, come la intendiamo noi, ovvero come un capo che rimane nascosto (a eccezione di stripper e passeggeri della metropolitana londinese durante il NoPantsDay) dai tanti abiti ridotti che, dal calzoncino sportivo al fundoshi giapponese, dalle bragotte rinascimentali al subligatum romano, servivano a contenere le parti intime (quasi sempre maschili) in circostanze varie (dall’andare a cavallo a sostenere incontri di lotta che, in totale nudità, potrebbero suggerire altri svaghi). La mutanda, insomma, come dicono gli anglosassoni, nasce per essere nascosta, per essere un underwear, deve stare sotto.
Ma qui nasce il paradosso dell’essere “nudi” sotto i vestiti. A parte il fatto che, per quanti sotto-vestiti uno si metta, si arriverà sempre a un punto in cui uno “sotto è nudo”. Anche il più pudico ammetterà di essere comunque nudo sotto le mutande. Ragionando in questa maniera si avrebbe quello che i filosofi chiamano il regresso infinito: per non essere nudi si dovrebbe indossare un numero infinito di mutande! Follie da metafisici pudici. Per non parlare del fatto che questa nozione di nudità richiederebbe che altri possano vederti. Se si è da soli sulla fantomatica isola deserta, per dire, non si può essere nudi. Lo si sarebbe in potenza, ma non in atto (filosofia classica qui!). In realtà, si dovrebbe concludere che, sotto i vestiti, non si è mai nudi perché… si è vestiti! Ma qui la logica è nuda!
Quindi, da un punto di vista simbolico, la mutanda esprime la negazione della nudità: è il rifiuto della propria corporeità indossando qualcosa che, sotto gli abiti, neghi che uno abbia un corpo. Ovviamente, cercando goffamente di negarla, la mutanda invece crea la nudità. Pochi si ricordano che, quando la mutanda passò dalla difesa del tessuto dei pantaloni alla copertura delle grazie femminili, l’indumento fu visto da molti non come un simbolo di pudicizia ma come uno strumento diabolico per mettere in evidenza le tentazioni delle carne, altro che per coprirle! Non a caso le mutande femminili erano usate soprattutto da cortigiane e prostitute. Che poi è l’accusa che fanno i naturisti ai tessili (cioè chi sente il bisogno del costume da bagno), ovvero che mettere strisce di stoffa colorata sulle parti intime, più che nascondere, evidenzia e sottolinea!
A riprova della natura ambigua dell’intimo basta ricordare la completa ipocrisia estetica che distingue intimo da costumi da bagno, che permette alla stessa persona di trascorrere la giornata in costumi ridottissimi, ma poi di manifestare imbarazzo e pudore indossando capi intimi molto più estesi e coprenti. Questo perché i secondi creano la nudità.
Ma insomma, ci siamo un po’ dilungati per giungere al punto fondamentale, ovvero che la mutanda non ha uno scopo pratico, ma una finalità simbolica: l’isolamento e negazione di alcune funzioni corporee dall’ontologia sociale. E qui arriva la mascherina, che sta assumendo un ruolo analogo.
Anche la mascherina nasce con uno scopo indubbiamente pratico, bloccare i droplet infetti, ma diventa rapidamente un simbolo di diffidenza nei confronti degli altri: gli altri esseri umani sono nemici da isolare e tenere a distanza. E così si sono indotte tantissime persone a indossare la mascherina in circostanze completamene sicure, come quando si è all’aperto o nella natura. L’atto di indossare la mascherina è diventato in pochi mesi ”un segno di stile, un gesto per dimostrare il rispetto” come ha recentemente sostenuto il virologo Fabrizio Pregliasco sul Corriere della Sera (7 aprile) “un fatto educativo, ci consideriamo tutti potenzialmente infetti”.
La mascherina diventa così come la mutanda, qualcosa che si deve mettere perché sta bene e sta bene perché rappresenta l’appartenenza alla comunità dei giusti.
E come i dermatologi considerano la mutanda utile per il benessere del corpo anche senza fornire giustificazioni scientifiche, anche la mascherina diventa un gesto morale anche se, per esempio, è ormai dimostrato che all’aperto il contagio è pressoché impossibile.
Mutanda e mascherina sono nate con un uso pratico, ma si trasformano in un segno di presunta moralità anche se, piano piano, il loro stesso uso le rende necessarie anche in pratica. Per esempio, chi indossa intimo rende la propria pelle particolarmente sensibile e, dopo un po’, non tollera più lo sfregamento dei vestiti che non creano alcun problema in un fisico sano. In modo analogo, la sciarpa e il berrettino dei bambini li rendono fragili e incapaci di vivere nel clima invernale. I vestiti creano il senso di vergogna per il corpo nudo (e incoraggiano a lasciarsi andare fuori forma). Nello stesso modo, come la mutanda crea la vergogna e la sciarpa crea la debolezza al freddo, la mascherina crea la paura per l’altro e l’imbarazzo per se stessi.
Ammettiamolo, indossare la mascherina fa sentire protetti, non solo dal virus, ma anche dalla visibilità espressiva ed emotiva. Dietro la mascherina non dobbiamo più preoccuparci di non mostrare antipatia o scherno, di fingere un sorriso amico o persino di mostrarci seri e compunti. La bocca è stata sottratta alla visibilità degli altri. Loro non mi vedono e io non li vedo. Non è una differenza psicologica da poco.
E così, tra mascherina, vita sociale e morale si crea la stessa tensione che esiste tra mutanda, sesso e, appunto, morale sessuale. Non a caso, durante la pandemia, il maggior numero di divieti si sono accumulati sui comportamenti che sono in qualche modo legati al piacere e alla vita sana: contro i runner, contro le palestre, contro il mangiare in compagnia all’aperto, contro il prendere il sole in spiaggia, contro le piscine.
La mascherina copre la parte del corpo associata alla vita, cioè il respiro, come la mutanda copre la parte del corpo associata alla riproduzione, cioè il sesso. Il legame è più stretto di quanto non possa sembrare. Non è solo una questione culturale, ma filogenetica. Come aveva notato argutamente l’etologo Desmond Morris nella scimmia nuda che è l’uomo, la bocca con le sue rosse labbra è un cenotafio degli organi sessuali e non a caso si traduce in atti che non sono presenti in quasi nessun altra specie animale (a parte il pipistrello della frutta).
Insomma, l’idea di Pregliasco secondo cui gli esseri umani sono tutti potenzialmente infetti è analoga all’idea secondo cui le persone sono tutte potenzialmente peccaminose e impure (dottrina del peccato originale) o alla prassi di considerare ogni cittadino come potenzialmente colpevole. Laddove San Francesco abbracciava i lebbrosi, la società di oggi isola i sani.
La mascherina rappresenta esteticamente la medicalizzazione dell’esistenza; l’idea che l’essere umano non possa sopravvivere senza una protezione aggiuntiva, come se non fossimo in grado di camminare per il mondo in piena autonomia fisica e mentale. La mascherina diventa il simbolo dell’eterna immaturità e quindi continua soggezione dell’essere umano a un’autorità più grande. Da piccoli erano i genitori, a scuola i docenti, nel medioevo le chiese e oggi, nel mondo scientifico, la comunità scientifica che ci detta i comportamenti e che ci permette di uscire in particolari condizioni e con particolari cautele, perché da soli – è l’assunto necessario – non siamo in grado di vivere. Mascherine e mutande segnano la nostra condizione di animali domestici assistiti da veterinari sanitari e morali: gli dei erano dipinti nudi.
La mascherina, al di fuori del suo contesto di reale utilità, come la mutanda, diventa il simbolo della appartenenza a un gruppo che fa dell’isolamento reciproco il suo principio etico fondamentale. Eppure oggi è stato dimostrato più e più volte che la mascherina ha una limitata utilità e che all’aperto il contagio è pressoché impossibile. Persino il ministro della sanità ha riconosciuto che all’aperto non ci sono rischi anche se continua a incoraggiare la mascherina o a considerarla un segno di rispetto. Questo però ha un lato oscuro; suggerisce alla comunità che i rapporti tra le persone non debbano avvenire senza autorizzazione. Il che, se ci pensiamo bene, è il messaggio storicamente legato alle mutande, ovvero stabilire che l’accesso e la vista delle parti intime debba essere vietata in pubblico e, persino in privato, debba essere soggetta ad opportune autorizzazioni (per esempio, il matrimonio). È la teoria idraulica dei rapporti umani: un’autorità esterna si appropria del sistema di distribuzione dell’acqua, per cui non si può più accedere liberamente a fiumi e sorgenti, ma si deve chiedere all’autorità il permesso di bere.
Insomma, mutande e mascherine hanno inquietanti analogie. Le mutande ci hanno convinto che il nostro corpo debba essere nascosto e negato, speriamo che la mascherina non ci convinca che l’altro sia sempre potenzialmente infetto. Un mondo dove la presunta colpevolezza diventa la presunta malattia che si può risolvere solo in due modi: o attraverso l’isolamento delle persone anche in mobilità (mutanda e mascherina) o attraverso la loro medicalizzazione; una visione distopica terribile che speriamo non si avveri mai, dove l’essere umano, mutandato e mascherinato, timoroso degli altri e del mondo, medicalizzato e indebolito, in nome della sopravvivenza a tutti i costi e del rischio zero rinuncerà a tutto e si vergognerà di se stesso, del proprio corpo, dei propri organi e forse, chissà, anche della propria voce. Liberiamoci delle mascherine e delle mutande (in sicurezza) e forse, chissà, scopriremo di liberare un po’ anche il nostro pensiero.
In copertina: John McAfee, padre dell’omonimo “antivirus”.
Fonte: https://it.mashable.com/tecnologia/4029/un-tanga-al-posto-della-mascherina-fermato-il-papa-dellantivirus-john-mcafee
Riccardo Manzotti (Parma,1969) è un filosofo, psicologo e studioso di Intelligenze Artificiali. Si è formato studiando e lavorando presso le università di Genova, lo IULM di Milano e il MIT di Boston. È attualmente Associate Professor presso lo IULM. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo “La mente allargata: Perché la coscienza e il mondo sono la stessa cosa” (2018). Basato su evidenze empiriche provenienti dalla fisica e dalle neuroscienze, il libro sviluppa e verifica l’ipotesi rivoluzionaria che la nostra esperienza cosciente sia un tutt’uno con il mondo esterno.”