I social come istituzioni totali per spingerci verso il Grande Reset dell’umanità
Non ho un account Instagram e non me ne vanto.
Sono in quella fascia di età (o campione di mercato) battezzata con il nome di un’altra finestra virtuale, quella di Facebook, dove “pensa che bello poter rimanere in contatto con gli amici in tutto il mondo”. Il primo account nel 2008 e la benedizione gratuita che con una password e un indirizzo email mi ha garantito l’accesso alla comunità delle Eterne Facce: l’avessero chiamato Soulbook sarebbe stato diverso. Non ci si sarebbe iscritto nessuno, nemmeno gratis.
Dodici anni di più o meno intensa attività social dove, oltre ad avvicinare un numero di oltre duemila amici sconosciuti, ero convinto di aver raschiato anche un modesto fondo, dal punto di vista umano (nel senso proprio di specie).
Poi è arrivata l’ingenua domanda di un amico: «Hai visto le stories che ha messo Marta su Instagram?»
Prima sensazione: sono già vecchio.
«Non ancora,» (mento per nascondere la mia ignoranza). «Fammele vedere.»
«Eh ormai è tardi, era di ieri.»
Scopro così il meccanismo delle stories e di quello che tutto il mondo non solo conosce, ma utilizza quotidianamente per trasmettere brevi video “a tempo”, di programmatica obsolescenza. Giuro che non ne sapevo niente.
Mi salta in mente L’uscita dalle officine Lumière, il primo film della storia, a suo modo un antenato della story che giudicai altrettanto inutile, anche se pare abbia fatto nascere il cinema.
Arresto per un breve momento i miei pregiudizi.
Continuo a scorrere questi frammenti dal telefono del mio amico: un piatto di spaghetti, un tuffo in piscina, un paio di scarpe, una ragazza in perizoma che mi invita a comprare l’ultimo libro di Lagioia (???).
Faccio pace con i fratelli Lumière.
Più osservo (in realtà “scrollo”), più mi sento shakerato da un neoespressionismo malato dove “l’urlo da dentro” diventa una vetrina dove si espone una merce che è l’identità: invece di riempire il mondo, lo svuota; un vomito, un’espulsione volontaria dell’io.
Mi ritrovo in un campo di concentramento virtuale: ogni profilo ha il suo recinto, ognuno la sua rete. Il tecnologico aspiratore è passato sopra un tappeto di polvere umana. Risucchiato dalla cannuccia di fibra ottica super fast, mi sembra di ritrovarmi “cosa fra le cose”, anzi, un “pezzo di cosa”.
Allora penso a Primo Levi. Anche i suoi “campi” erano istituzioni totali molto simili ai social, se per social s’intende un sistema studiato per violarci-violentarci e spingerci verso il grande reset, in prossimità di una cancellazione della nostra versione umana.
Cos’è rimasto d’intatto in un sistema dove “ieri è già tardi” e dove le nostre storie scadono in automatico? Ma è davvero così che l’uomo muore, in tutta sicurezza?
Quando siamo logged in introiettiamo noi stessi in un aldilà truccato: la nostra nuova meta di ristoro e deportazione; una malabolgia dove la pena è dovuta a quello che Simon Schama definisce il “disagio dell’abbondanza”. Eppure ci replichiamo al suo interno, siamo tanti, siamo milioni, ci tocchiamo i profili: una community; involuti a soprammobili secondari, elementi d’arredo di dubbio gusto. La condanna non ci viene inflitta dal grilletto nazista, ma dal morbido click di un mouse.
La mia espressione tace. Rimango senza il bisogno di parlare con il mio amico a proposito di Marta di cui mi frega il giusto. In realtà comprendo che a premere è l’esigenza di iscrivermi subito a Instagram; penso di avere anch’io una buona esibizione da mostrare nell’aldilà collettivo, un numero di magia dentro la manica.
Ma il mio amico riprende il suo telefono ed è come se fossi rimasto solo, senza cornice. Quello schermo che delimitava il mondo era rassicurante, in fondo. Rimango un pezzo di carne, disarmonico e piatto. Espositore della mia pelle umana: un essere a “umanità invertita” (cit. intervento di Paolo Ercolano al Festival della Filosofia Sassuolo 2019).
Come dicevo non ho un account Instagram… eppure sarebbe bello se mi iscrivessi: morirebbe, così, la mia stupida, distanziata carne?
fonte dell’immagine: “K.Z. Disegni dai campi di concentramento nazifascisti”, Edizioni BeccoGiallo
Andrea Trolese (1986) è laureato in Lingua e Letterature Straniere con specializzazione in lingua e letteratura Russa. Appassionato viaggiatore, ha pubblicato un diario di viaggio dal titolo “Dove Salgono le Stelle, da Desenzano del Garda a Ulàn Bàtor” (Carlo Brusa, 2014). Dal 2008 è socio e collaboratore dell’Associazione di Studi Storici Carlo Brusa con la quale ha pubblicato “D. Giacomo Manerba, Cronaca di Desenzano 1781-1826” (Grafo, 2009) e nello stesso anno ha pubblicato un saggio sul Risorgimento italiano all’interno dell’opera “Il Crinale dei Crinali” (Franco Angeli, 2009). Vive e lavora a Desenzano del Garda.