Ultimo stadio di Francesco Negri: è nato il manifesto identitario della parte marcia dei ventenni

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Per quanto a volte li si confonda, il romanzo generazionale è per molti versi l’opposto di quello di formazione: un protagonista generazionale ha gli anticorpi per resistere a quel conformismo che lo lascia deragliare e poi lo riporta con indulgenza in carreggiata. Per lui, la carreggiata non esiste, e non è che la rifiuta, non la vede proprio. Persino Trainspotting, nel finale, indulge nel messaggio formativo: non serve la redenzione del personaggio, basta il riconoscimento dei paradigmi (o “paradogmi“) prevalenti.

I protagonisti di Ultimo Stadio, opera prima di Francesco Negri, da questo punto di vista sono a tutti gli effetti autistici, impermeabili. Figli della generazione social, l’accesso istantaneo e dopaminico all’informazione li ha dotati di una cultura aneddotica pressoché infinita, subiscono la fascinazione di storia e ideologia, ma sono privi di bussola morale: tutto è assorbito e reinterpretato in una narrazione delirante, dissacrante e nichilista, una versione ancora più No Future del No Future stesso, perché non strizza l’occhio ad alcuna affiliazione politica.

I clash generazionali hanno sempre portato creatività e rivolta – oltre che tanta repressa infelicità, c’est la vie –, è così che il conservatorismo della generazione precedente ha trasmesso a quella futura la rabbia e l’energia della frizione e del cambiamento.

Ma nella generazione raccontata da Negri qualcosa s’è inceppato: il presente è una macchia, le regole tanto contraddittorie ed evanescenti che creare una resistenza basata su principi positivi è impossibile. Tutto è stato provato, resta solo l’estremo, anarchia e violenza, la rinuncia alla luce pur di affermare la propria esistenza.

Sono grato a Francesco Negri, perché mi ha aperto una finestra delirante sulla parte marcia della sua generazione, sulla Trap che fa schifo perché vuole far schifo, rifiuta le rime, ha il mito della marca e ci sputa sopra, e urla una disperazione che Joe Strummer non sarebbe nemmeno riuscito a intuire. I protagonisti non vogliono essere capiti, perché l’imperscrutabilità è la loro unica arma di difesa, la stessa con la quale la loro epoca li ha colpiti a tradimento.

E quando il loro terrorismo viene alla luce, la macchina capitalista ci mette un istante a spogliarlo della componente pericolosa e costruirci attorno un piano marketing. Gli artisti vengono incasellati, coperti di gloria e chiusi in una gabbia dorata, e a quel punto a loro non resta che la sconfitta, e abbracciano definitivamente l’abisso.

Chi scrive è stufo delle vicende private di tanti autori contemporanei che provano a guadagnarsi rilevanza letteraria tramite pornografia emotiva; le biografie e i diari sono fatti per personaggi rilevanti, per gli altri c’è il salotto della d’Urso.

Per superare – in modo inconsapevole, come fa chi è guidato da talento naturale –, questa barriera, Negri immerge la propria biografia (e presumibilmente quella dei suoi amici, ai quali il romanzo è dedicato) in un plot ben più complesso del proprio diario, e usa con naturalezza sconcertante realtà aumentata e polisemia.

La credibilità dei personaggi è legittimata da dialoghi perfetti: battute, bestemmie, nomignoli, sembra tutta roba proveniente dai brusii indistinti che vengono dal fondo del tram nelle ore alticce del weekend. Questi momenti sono intervallati in modo apparentemente randomico da passaggi quasi lirici, che ci prendono costantemente in contropiede e mi hanno più di una volta forzato a tornare indietro di due paragrafi per assicurarmi di aver goduto appieno del passaggio, come si fa nei momenti chiave dei film che ci prendono di più. 

Ultimo stadio è il primo romanzo che tratta con cognizione di causa la parte marcia della nuova leva, al punto da diventarne manifesto identitario: Negri ha la forza di aprirci di fronte un abisso e mostrarcelo passo dopo passo, fino al punto in cui non possiamo far altro che empatizzare con i suoi disperati, ed esserne terrorizzati al tempo stesso.

Ventisei anni fa Brizzi con Jack Frusciante ci ha raccontato una generazione cieca e inoffensiva, dal tenero wishful thinking, a suo modo rassicurante e sotto controllo: era la cosa giusta da fare, perché esisteva e meritava un cantore (e la riprova è che nel suo seguito, Bastogne, si sono visti i limiti della mancanza di autenticità di chi parla di ciò che non conosce).

Negri ha a che fare con interpreti infinitamente più pericolosi, più simili semmai alla «fauna scatenata» di Altri libertini, il romanzo d’esordio che apre gli anni ottanta di Tondelli, e dargli voce è di per sé un atto di imperdonabile terrorismo.

Dopo la lettura di Ultimo Stadio, è difficile guardare i ventenni allo stesso modo.

O per meglio dire: è come vederli per la prima volta.


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