Cinque domande sulla fase due

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1. Vogliamo chiarezza e trasperanza sui dati: come vengono calcolati, come sono distribuiti Comune per Comune? È vero che esiste un ritardo di 8 giorni tra la comunicazione della Protezione civile e l’elaborazione del dato? È vero che il dato è calcolato su un sesto dei Comuni italiani e il numero dei decessi è ricavato dalla differenza di mortalità tra il dato Istat dello stesso periodo dell’anno scorso e quello attuale, senza distinzione di patologia?

2. In che modo si sta curando oggi il Covid? Sono passati più di due mesi dal primo caso segnalato ed è improbabile che il grado di preparazione del sistema sanitario sia lo stesso dell’8 marzo. Esiste o si prevede che possa esistere a breve un protocollo nazionale capace di migliorare la condizione sanitaria di ospedali, personale e RSA, di fare la sorveglianza attiva (anche senza app) sulla catena di contagi, di tagliare i ricoveri, di agire con cure efficaci (e uniformi) rispetto alla fase acuta della malattia e di sostituire il ricorso alla terapia intensiva? Non è possibile, infatti, che dopo più di quaranta giorni di contrasto sul campo e “sacrifici” la risposta del governo sia sempre quella di “restare a casa”: convivere con il virus significa imparare a gestirlo come una sindrome influenzale tra le altre, non trasformare il Paese in un lazzaretto permanente o nella base emergenziale di improbabili palingenesi da imporre a colpi di decreti, stato di polizia e “pieni poteri”, nella più totale mancanza di contraddittorio democratico.

3. Il lockdown “totale”, che è stato motivato in ragione dell’impreparazione del sistema sanitario nazionale e del crollo di Lombardia ed Emilia – due Regioni che da sole formano circa il 70 % dei decessi, con decine di inchieste della magistratura a corredo – non doveva essere allentato o rimosso a seconda del rischio effettivo Regione per Regione? Molise, Basilicata e altre 22 Province a contagi zero, si meritano (ancora) lo stesso trattamento del lodigiano? È una forma di espiazione per “gli infiniti lutti inflitti agli achei”? Oppure la ragione è il consenso, ovvero l’omologazione delle decisioni è un modo per evitare invidie tra province, città e Regioni? Eppure, l’emergenza va “contenuta e contrastata” laddove si presenta in base a un criterio spazio-temporale di “urgenza e contingenza” ben definito, altrimenti produce tutta una catena di emergenze collaterali ben più gravi della prima, oltre a essere giuridicamente illegittimo.

4. Perché non resti uno slogan in cerca di “facili consensi”, “la salute al primo posto” non può diventare “la cura del Covid al primo posto”: esistono malattie e problemi di salute pubblica ben più gravi, radicati e diffusi di questo nuovo virus e tutti stanno passando in secondo piano per un fenomeno di assolutizzazione del desiderio che l’antropologia conosce come “fase di mitizzazione” e ricerca del capro espiatorio. Come si pensa di uscire da questa monopolizzazione del dibattito pubblico del tutto irrazionale e controproducente? Esiste un compromesso possibile tra la minimizzazione della prima ora e l’esasperazione attuale, tra principio di precauzione e minor danno?

5. La cosiddetta “fase due” presenta apparentemente le stesse criticità e contraddizioni della “fase uno”, che a parere di chi scrive non è andata benissimo. Ci sono Regioni, come il Veneto, che hanno applicato il protocollo epidemiologico classico: consiste nel bloccare solo gli epicentri del focolaio e lavorare sulla sorveglianza attiva e la medicina del territorio per contenere il contagio e tagliare i ricoveri; quando lo ha applicato, anche l’Emilia Romagna ne ha tratto giovamento. Perché questo protocollo non è ancora stato attivato in Lombardia e perché non può diventare un protocollo nazionale? D’altra parte, non si vede come si possano liberalizzare determinate attività e non altre a seconda della forza e del numero dei gruppi di pressione – per cui la Lombardia ha continuato a lavorare anche sotto “lockdown totale”, mentre d’improvviso e a discrezione si scopre la “libertà di culto” e l’importanza degli “affetti stabili” –, salvo l’idea che queste misure siano più di tipo propagandistico che epidemiologico, ovvero servano a conservare il senso di un «regime molto severo e molto stringente per tutti» della libertà di circolazione (come ammesso dal sottosegretario Baruffi per la vergognosa vicenda dei “runner”). Ma l’unico aspetto preventivo fondato non è forse l’igiene e il distanziamento sociale? Se i genitori vanno al lavoro mentre i figli restano a casa – magari dai nonni –, non è un controsenso destinato ad aumentare la percentuale dei contagi in ambito familiare, che sono al secondo posto dopo le RSA e prima degli ospedali? L’esempio degli Stati europei che non hanno operato un lockdown totale – ovvero tutti tranne Italia, Spagna e Francia – dovrebbe rappresentarne una prova.


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