Johnny Rotten e la chat degli orrori
La notizia della chat degli orrori mi ha messo a disagio, e ci ho messo del tempo a capirne il motivo. Poi, a distanza di settimane, l’episodio del ragazzo che si è dato fuoco in Francia, lo studente di scienze politiche che ha compiuto un gesto difficile da spiegare con un semplice disturbo psicologico.
Quando ho letto di Lione ho ripensato allo “Shoah party”, e per la prima volta ho provato a mettermi nei panni di quei ragazzi lontanissimi dalla mia sensibilità; ho cercato un legame, per quanto flebile, capace di darmi una chiave di lettura.
La prima cosa che mi è venuta in mente è stata una vecchia barzelletta su Ray Charles: Ray è ospite di un programma televisivo, e il presentatore gli chiede quanto la sua cecità lo avesse penalizzato nella sua carriera. Lui sorride e risponde: “Poco, in fondo. Meglio cieco che ne*ro, no?”
Ho iniziato a ridere. Da solo. Sì, l’idea che Ray non conoscesse il colore della propria pelle, e il sottinteso orribile che tale ingenuità provenisse da un deficit razziale, hanno svegliato l’iconoclasta che è in me, un bambino interiore che ride, che impazzisce all’idea di pronunciare ad alta voce la parola proibita.
Credo si tratti di una sorta di sindrome di Tourette, una reazione isterica, un fallo di frustrazione ai danni dei costrutti culturali che ci hanno cucito addosso dalla nascita.
Federico Renzi su Vvox sostiene che questa fascinazione per il male sia evocata dai mass media stessi, che ci mostrano immagini di violenza inaudita e credono di cavarsela accompagnandole con semplici didascalie di condanna.
Io farei un passo ulteriore: non si tratta solo di immagini che evocano violenza, ma anche di precisi attegiamenti culturali. Prendiamo Vittorio Feltri, quella maschera di buonsenso xenofobo della quale nessun talk show sembra poter fare a meno. Come capita a molti, io lo detesto: è ridicolo che qualcuno lo ritenga un giornalista, no? E allora come mai ogni volta che dice la parola “ne*ro” a me scappa da ridere? Cerco le sue performance su Youtube, le trovo esilaranti. Come pure la grinta di Sallusti quando parla degli immigrati. O quando fa finta di non capire che il movimento del #Metoo non può essere banalizzato con un «se non vuoi darla non la dai, mica ti puntano la pistola». Che potenza liberatoria, però, metterla giù in questo modo, no?
Senza scomodare Salvini, per il quale la morte di Stefano Cucchi «dimostra in ogni caso che la droga fa male», per molto tempo sono stato convinto che l’effetto di determinate battute su tanta gente fosse quello di giustificare i loro fallimenti e il loro lato più becero con la formula della rappresentenza politica e culturale. Lo sdoganamento, insomma, di tutto quello che, nella mia arroganza radical-chic, considero il peggio dell’animo umano.
Invece c’è di più.
C’è qualcosa di più potente in questi atteggiamenti, una fascinazione che fa leva sul nostro istinto di sopravvivenza, che considera giusto, vero, valido quanto è utile alla stessa e basta.
Questo spirito non è lo stesso del ‘77, quello del «Don’t know what I want but I know how to get it» che portava i Sex Pistols a sbattere svastiche davanti al pubblico «contro la dittatura della pace»? L’hanno fatto persino in prima serata, da Bill Grundy, nel corso dell’intervista passata alla storia per le parolacce e la strafottenza di Johnny Rotten, ma non per la svastica al braccio di una delle groupie: l’establishment dei tempi era forse più furbo di quello di oggi e non cascava di fronte a certe provocazioni? Oggi quella svastica finirebbe in prima pagina su tutti i giornali, e sarebbe l’ennesimo scivolone dei nostri intellettuali sull’interpretazione delle nuove generazioni.
Non sto paragonando Feltri a Johnny Rotten, non ci può essere più distanza tra i due: Feltri alza merda a casaccio, non c’è energia di cambiamento in lui, solo laida autoindulgenza. Eppure l’effetto iconoclasta ha una radice comune, e i Johnny Rotten di oggi non si sfogano con punk, eroina e ideali distorti. Molto peggio: stanno a casa, inermi, pieni di fatalistico disincanto, a rimuginare sulla potenza delle parole e dei simboli, mentre il loro furore macera inespresso e incompreso, e diventa autodistruzione spirituale.
Addirittura, i danni peggiori vengono da sinistra: l’establishment progressista odierno appare inattaccabile, ipocrita al punto giusto da non offrire ai giovani qualcosa di retrivo contro cui ribellarsi. Un tempo c’era uno scontro generazionale molto più semplice: la vecchia generazione, quella col potere politico, la sua intolleranza verso gli omosessuali, verso chi vestiva strano, le donne senza il diritto di voto, il razzismo – quello bigotto, inconsapevole, che quasi chiedeva di essere educato – e dall’altra le nuove leve, che contestavano la morale comune, ne individuavano le ruggini e le contraddizioni e, per dirla con Moretti, «gridavano cose giustissime».
La via era chiara: i gay non avevano diritti? Ai giovani era evidente che fosse sbagliato, non c’era salotto televisivo in grado di confondere i ruoli e buttare tutto in caciara.
Ma nonostante gridassero cose giustissime, quei giovani non sono diventati gli splendidi quarantenni menzionati da Moretti: anzi, proprio loro hanno creato una palude di ipocrisia che ha annebbiato l’attuale confronto generazionale, e così l’energia dell’adolescenza e della giovinezza non esplode più a sinistra, ma nemmeno a destra. Si estingue in una generalizzata frustrazione e, priva di bussola, subisce la fascinazione del male, la stessa che mi prende quando penso a Ray Charles.
L’establishment è paternalista, soffocante nel suo buonsenso, con le sue lezioni tanto noiose quanto incontestabili: ma le nuove generazioni si sono rotte di farsi dare lezioni, soprattutto su eventi troppo lontani per essere a portata di empatia. Non li hanno vissuti, i campi di sterminio, e non hanno vissuto l’apartheid: quanto viene raccontato a scuola deve essere sufficiente affinchè loro lo condannino, così come devono condannare gli spartani che gettavano gli storpi dai dirupi o lo sterminio degli indiani d’America.
Siamo terrorizzati dal ritorno di un male vecchio ottant’anni, ma la storia non si ripete mai allo stesso modo.
A giudicare dalla chat degli orrori, ma anche dalla bacheca di Salvini e dalle relative intenzioni di voto, la nuova generazione è razzista, omofoba, sessista, egoista, stupida e conservatrice. Davvero?
Non penso. Credo sia semplicemente in attesa di capire in che modo impiegare al meglio lo spirito di adattamento alla nuova epoca. E i mostri non sono i fantasmi del nazi-fascismo: se spingiamo i giovani a guardarsi troppo alle spalle, non vedranno il baratro che sta loro di fronte in forme differenti.
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Fotografia di Adriano Padua tratta dalla serie “Il quarto stato”, per gentile concessione dell’autore. Adriano Padua è nato a Ragusa nel 1978. Ha pubblicato le seguenti opere: Le Parole Cadute (d’if, 2009), Alfabeto provvisorio delle cose (Arcipelago, 2010), La presenza del vedere (Polimata, 2010), Schema (d’if, 2012), Still Life (Miraggi, 2017). Come performer ha partecipato ai maggiori festival e appuntamenti nazionali di poesia (Romapoesia, Parmapoesia, Absolute Poetry di Monfalcone, Festival della poesia civile di Vercelli, Poesia Presente di Milano, Notte Bianca di Roma, RicercaBo di Bologna). Laureato in sociologia della letteratura, ex giornalista, lavora nel campo della comunicazione e degli eventi culturali. Esegue i suoi testi con la collaborazione di dj e musicisti. Si diletta di fotografia.
Luca Fassi nasce a Marcallo con Casone, in provincia di Milano, nel 1982. Laureato in economia, vive e lavora a Saint Joseph, in Michigan. Con Transeuropa ha pubblicato il suo romanzo d’esordio, Termomeccaniche, nel 2019.