Quant’è n3gr0 Balotelli! Cori razzisti o forse no

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Io non conosco Luca Castellini. Forse ci saremo incrociati sugli spalti del Bentegodi qualche domenica di novembre, oppure l’avrò visto esultare al goal di Nico Lopez nel 2015, mostrandogli il medio mentre lo speaker annunciava: «Si avvisano i tifosi della squadra ospite di restare nel proprio settore…» Ma non gli ho mai parlato: tra noi e i veronesi corre cattivo sangue, almeno dai tempi dell’ultima giornata nel ’72-’73. Anzi, diciamolo chiaramente: noi del Milan i gialloblu li odiamo.

Non conosco nemmeno Mario Balotelli. Per un breve periodo l’ho adorato come un fratello maggiore mezzo pazzo, quando ci trascinò in Champions League a suon di goal durante la seconda parte della stagione 2013-2014. E mi è sempre piaciuta la sua tendenza a buttarsi via, a litigare con chiunque e con se stesso, i petardi scoppiati in casa, la patenti ritirate e le magliette «WHY ALWAYS ME?» sfoggiate durante i derby di Manchester. Non gli perdono soltanto quella fucilata contro Buffon a tre metri dalla porta, la volta che avevo puntato cinquanta euro sull’1+over1.5 e venti su di lui marcatore.

Così delle loro recenti vicende so giusto la versione dei giornali, della TV: un noto esponente di Forza Nuova, leader della curva veronese, lancia cori razzisti contro il centravanti di colore del Brescia, che reagisce interrompendo il gioco e scagliando il pallone in tribuna. Nei giorni seguenti spuntano video – oh, che sorpresa!, giravano online già da anni – di Castellini che inneggia a Hitler durante un raduno degli ultras gialloblu. Lui nega ogni coro discriminatorio, ma ha la bella idea di sostenere in una trasmissione radiofonica che Balotelli «non sarà mai del tutto italiano». Mario replica sdegnato su Instagram. Vescovi, politici, allenatori e sopravvissute all’olocausto si rotolano o vengono fatti rotolare nella polemica. Fabio Capello: «Abbiamo dato importanza a queste persone. Nessuno ha avuto la forza di condannarli. Basterebbe fare come con gli hooligans in Inghilterra.» Il vescovo Giuseppe Zenti: «Pochi sanno che San Zeno, il patrono della città, è di colore. Quella dello stadio non è VeronaMatteo Salvini: «Con 20mila posti di lavoro a rischio, Balotelli è la mia ultima preoccupazione. Ma proprio l’ultima ultima ultima. Vale più un operaio dell’ILVA che dieci Balotelli. Il razzismo va condannato ma non abbiamo bisogno di Fenomeni.» Liliana Segre: «Ancora guardano i colori delle persone?» David Sassoli, presidente del parlamento europeo: «Balotelli è del tutto italiano. È del tutto europeo.» Federico Sboarina, sindaco scaligero: «Allo stadio non vi è stato alcun coro razzista. Non può esistere che su presupposti inesistenti vengano messe alla gogna una tifoseria e una città.» Ministro Teresa Bellanova: «Mario Balotelli è nato e cresciuto in Italia. Non è certo il colore della sua pelle a determinarne l’identità e il paese di cui si sente cittadino. E d’altra parte non saprei quale identità dare a Luca Castellini se non quella di un razzista arrogante.»

Tutto semplice, quindi? Se ci sono stati cori, erano espressione di razzismo e ignoranza. Altrimenti si tratta solo dell’ennesimo capriccio di un bambinone viziato.

Sbagliato. Tanto per cominciare, c’è almeno un altro motivo per il quale vengono intonati canti discriminatori sugli spalti, e prescinde del tutto da razzismo e ignoranza: l’articolo 4 comma 2 del Codice di Giustizia Sportiva, che regola la responsabilità oggettiva delle società calcistiche. Secondo il C.G.S. ogni società è responsabile – a prescindere da colpa e dolo, che possono semmai concorrere come attenuanti o aggravanti – per il comportamento dei propri dirigenti, tesserati e sostenitori. Così, nell’eterna scaramuccia tra proprietà e tifo organizzato per ottenere influenza o vantaggi economici (in termini di soldi, merchandising, biglietti, etc.) il coro discriminatorio è diventato un’altra arma: «Dateci duemila biglietti gratis o cantiamo “Balotelli negro” e il giudice sportivo vi multa di cinquecentomila euro.» Do ut des. È il business, il calcio moderno. Il virus che ha infettato anche molte curve a partire dagli anni ’90, aprendole ad affari e infiltrazioni mafiose. Il capitalismo, baby.

Ma c’è altro. A me di biglietti non ne danno. E non sono razzista. Eviterò di spandermi in dimostrazioni: sono il primo indizio di colpevolezza. Le palestre schiumano di pompati con la fobia di essere froci. Lo stesso Castellini si è premurato di sottolineare che «anche noi abbiamo un negro in squadra, e quando ha segnato tutta Verona lo ha applaudito.» Be’. Io odio il fitness, sono antirazzista, e non ricevo biglietti da nessuna società di merda. Eppure a ogni giocatore di colore che correrà sotto la Curva Sud, sarò il primo a ululare e lanciare banane gonfiabili. Come mai? Citerò Michel Mourre, un ragazzo di ventun anni che nel 1950 si travestì da dominicano e bestemmiò durante la messa di Pasqua a Notre-Dame: «Per uccidere la dittatura della pace.»

Mi spiego. Gli ultras, noi ultras, nasciamo in Italia sull’onda del ’68. Gli hooligans erano qualcosa di diverso: pura guerra tra bande. Difatti, alle prime repressioni sono scomparsi. O meglio, hanno continuato a darsele di santa ragione, ma lontano dagli stadi. Noi invece, accanto all’idea di un campionato di violenza parallelo a quello ufficiale, abbiamo sempre coltivato l’ambizione di influire sul mondo del calcio: con il nostro tifo anzitutto (il famoso “dodicesimo uomo in campo”), ma anche combattendo la sua metamorfosi da passione a business miliardario. Per anni il potere ci ha considerato un’utile valvola di sfogo, rispetto al dissenso armato degli anni di piombo; quando però alle BR si è sostituito l’antagonismo da figli di papà dei centri sociali, siamo finiti nel mirino. Erano gli anni ’90: la serie A il campionato più ricco del pianeta, presidenti del consiglio e magnati del petrolio spendevano centinaia di miliardi di lire all’anno, e per la prima volta le partite venivano trasmesse in diretta, facendone incassare altrettanti in diritti TV. Degli ultras – tifosi disposti a seguire la squadra sugli spalti ovunque e comunque andasse – non c’era più bisogno. Anzi, rischiavano di rovinare lo spettacolo. Già. Perché proprio questa è la parola chiave del calcio moderno: spettacolo. La profezia formulata da Guy Debord cinquant’anni or sono è più vera ogni giorno che passa: l’ambizione massima del potere è trasformare ogni uomo in uno spettatore, tanto assuefatto a uno show sempre più veloce e tecnologico da non concepire orizzonti alternativi, da perdere ogni istinto a essere attore e scegliere «davvero, non per delega» (cit. Hegel: ebbene sì, anche noi ultras sappiamo leggere). E così l’esempio virtuoso portato dai magnati del pallone è proprio la Premier League – il primo campionato inglese – un tempo territorio di caccia degli hooligans, oggi giardino lobotomizzato per famiglie: squadre ricche e vincenti, tifosi muti come davanti alla playstation, stadi moderni e infarciti di telecamere, in cui alla prima birra o segno di dissenso si viene radiati a vita. 

Ma il libro di Debord non si intitolava Il Calcio Moderno, bensì La Società dello Spettacolo. E noi siamo solo la punta dell’iceberg. Vi dice niente il Daspo urbano – appena introdotto nel diritto comune? L’hanno testato sulla nostra pelle per vent’anni. E arriveranno anche per voi le telecamere scanner, il divieto preventivo e arbitrario di accesso, la flagranza differita a 48 ore, la delega di poteri alle autorità di polizia, le cariche, l’inasprimento delle sanzioni, le pene collettive a prescindere da ogni responsabilità, gli spazi chiusi, le trasferte vietate, le perquisizioni, la tessera. Non c’è differenza tra destra e sinistra: è stato Beppe Sala, il sindaco arcobaleno, il baluardo della new left, a lanciare il Daspo urbano sul territorio milanese. Quando vi vieteranno di uscire dal vostro quartiere o andare al bar sotto casa senza un documento biometrico che identifichi e tracci ogni vostro movimento, quando l’unico svago permesso sarà la televisione o il computer, ricordatevi gli ultras.

Ecco perché la vostra pace è dittatura, mentre la nostra guerra è per la libertà di tutti. Non importa che libertà: di ubriacarsi, di essere astemi, di pippare cocaina, di lavorare, di rubare, di avere tre figli, di gettare al vento la propria vita, di fare a botte, di innamorarsi, di volgere le spalle al campo e cantare novanta minuti senza guardare la partita. Ecco perché le nostre armi devono essere le stesse della Società dello Spettacolo: oggi, solo ciò che appare esiste agli occhi del mondo; un dissenso che non venga trasmesso in televisione è inutile. Vero, chiunque vada allo stadio ogni domenica si ritrova al centro del rapporto tra individuo e potere: lì trova il poliziotto (il potere repressivo), il proprietario della squadra (il potere economico), la Lega Calcio (il potere politico), il giornalista (il potere mediatico). E tutti cercano di inquadrarlo, di distorcere la realtà, di negare i suoi diritti e ucciderlo.

Ma è importantissimo continuare a partecipare: finché saremo lì, sugli spalti, al centro dei loro riflettori, non potranno dire che non esistiamo. Non potranno dire che va tutto bene. Che tutti sono d’accordo. E pur di mandare di traverso la cena alla sciura che guarda il TG delle 20, l’aperitivo al bocconiano che legge il “Sole24Ore”, la «birra popolare» allo studente di filosofia della Statale – ogni gesto è valido: anche accoltellare uno sbirro, sventolare croci celtiche o stelle a cinque punte, urlare cori razzisti, lanciare molotov.

In seconda media ascoltai per la prima volta i Sex Pistols. Una foto di Sid Vicious mi ossessionava: appoggiato a un muro di mattoni, con ghigno sul volto, bottiglia di gin in mano e t-shirt rossa sulla quale campeggiava una svastica. Era bellissima. Ma non capivo. Ora sì, e posso cantare «Quant’è negro Balotelli dalla testa in giù! Balotelli! Uh! Balotelli! Uh uh uh!» lontano anni luce dal razzismo e dal calcio moderno. Se mai succederà anche a voi, fatemi uno squillo: ci troveremo al baretto di piazza Axum, tre ore prima della partita.

*** *** ***

Fotografia di Adriano Padua tratta dalla serie “Il quarto stato”, per gentile concessione dell’autore. Adriano Padua è nato a Ragusa nel 1978. Ha pubblicato le seguenti opere: Le Parole Cadute (d’if, 2009), Alfabeto provvisorio delle cose (Arcipelago, 2010), La presenza del vedere (Polimata, 2010), Schema (d’if, 2012), Still Life (Miraggi, 2017). Come performer ha partecipato ai maggiori festival e appuntamenti nazionali di poesia (Romapoesia, Parmapoesia, Absolute Poetry di Monfalcone, Festival della poesia civile di Vercelli, Poesia Presente di Milano, Notte Bianca di Roma, RicercaBo di Bologna). Laureato in sociologia della letteratura, ex giornalista, lavora nel campo della comunicazione e degli eventi culturali. Esegue i suoi testi con la collaborazione di dj e musicisti. Si diletta di fotografia.


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